Le diverse dottrine psicoterapeutiche

non hanno poi grande importanza.

Ogni psicoterapeuta capace, sfiora

anche tutti quei registri che non fanno

parte della sua teoria. (Jung)

Lo sguardo del terapeuta si posa sulla relazione, l’autenticità  si impone all’attenzione dell’incontro, del setting individuale e di gruppo. Le teorie, i modelli, i pensieri e le idee che nascono dalla mente e dal cuore del terapeuta partecipano in una danza rituale all’ascolto e alla condivisione relazionale con l’altro, dentro e fuori di se: il soggettivo si apre all’oggettivo e viceversa. L’ascolto, primo pilastro della cura, diventa un prestare orecchio alla sofferenza del paziente, presuppone l’accoglienza dei suoi demoni che bussano attraverso i sintomi alla porta della stanza terapeutica. In questa feritoia relazionale, nel castello medievale, fatto di mura  contemporaneamente durissime e friabili, si attraversano profondità archeologiche e cuneiformi rimanendo in superficie. La superficie è profondità, uno scendere nel presente e nel passato, per dare prospettiva al futuro, all’albedo, che gradualmente si fa spazio attraverso l’Ombra, la nigredo, la materia nera, per fare spiccare il volo alla colomba che metaforicamente viaggia tra le vette ed i picchi dopo essersi bagnata nelle acque torbide della sofferenza e del dolore, spesso assurdo ed incomprensibile.

La creatività, prima di essere un contenuto, è uno stile dell’Anima, junghianamente parlando, l’archetipo della vita e anche  una modalità di vedere in trasparenza, simbolicamente ed immaginalmente gli eventi reali che accadono alla nostra esistenza. La creatività è un stile di leggere e guardare il reale, non rimanendo imprigionati nella rete della mente, ma cambiando prospettiva: dipingere come in un quadro di Chagall, girando il foglio sotto sopra e partire da un altro lato, da un altro punto di vista, senza rimanere soffocati dai propri modelli tecnici acquisiti durante lunghi anni di lavoro personale e gruppale.

La riflessione che si apre, in questo volume, non è tanto quella di inseguire un’idea della creatività in senso metafisico o speculativo, ma come essere creativi, all’interno del proprio modello teorico e della propria equazione personale. Questo mi sembra un punto da cui si possono diramare le costellazione dell’intreccio tra relazione terapeutica e creatività. Non aspiriamo ad essere o fare diventare i nostri pazienti, artisti, poeti, scrittori o inventori, ma ad un fare creativo che stimola e tocchi la base poetica della mente, al di là della specificità delle teorie scientifiche dei singoli modelli terapeutici. La consapevolezza che nessun modello psicoterapeutico è depositario della verità, nè peggiore o migliore di un’altro, deve essere da monito all’essere creativo del terapeuta, aprendo le porte all’autenticità della relazione  hic et nunc nel presente, e nell’essere oggi al mondo… questo mondo.

Il fare creativo pertanto non rappresenta una pennellata folkoristica, spontanea, occasionale, immediata all’interno della relazione terapeutica, altrimenti diventa atto geniale (pur essendo certe volte indispensabile) e come tale straordinario.

Mi sembra invece che guardare all’ordinarietà con gli occhi creativi, presuppone un arare, da parte del terapeuta, il terreno con pazienza e gradualità, con la fatica della coscienza  che come una isola nasce e prende forma dal mondo  dell’inconscio. Un mondo fatto di diversi ingredienti e  substanzia, impregnato di una dimensione ciclica temporale in cui gli eventi, ritornando e seguendo il principio della spirale, si muovono tra l’alto e il basso, il cielo e la terra, la materia e lo spirito. Allora la capacità di essere creativi  fertilizza la dimensione dell’attività immaginativa non intesa come evasione fantastica, ma utensile e strumento per fabbricare, creare, costruire, dissodare le zolle aride del terreno dalla Psiche del paziente, con la consapevolezza che ogni atto creativo è un toccare il limite, nel tentativo di allargare i confini della coscienza  all’interno di un dialogo dialettico  con ciò che non si vede o si percepisce e che spesso non mostra immediatamente il senso.

L’atto creativo nell’ambito relazionale, diventa sempre un atto contemporaneamente simbolico e corporeo, immaginale e reale, dal momento che tocca la totalità della Psiche dell’altro e di noi stessi, ma anche lo spazio che si crea all’interno del setting; una sorte di ponte simbolico che collega, unisce, getta un senso all’esistenza partendo dai vissuti, dalla storia clinica, dalle fantasie e dal presente di chi chiede relazione, ma anche stile creativo nel fare relazione. Il romanzo dei nostri pazienti ( ma portatori anche di frammenti del romanzo del  mondo) è rimasto avvolto in una visione monoculare, i personaggi non danzano più con Anima sulla scena del racconto e le trame hanno smarrito le linfa della ricerca, della curiosità istintiva della conoscenza e dell’apprendimento dall’esperienza nel presente.

L’esperienza della circolarità, come in un romanzo di Italo Calvino, dello scambio si è arenata,in una stazione priva di treni, ma solo con binari morti; la vita del paziente diventa storia spezzata, ripetizione, accartocciamento su se stessa e i sogni non abitano più la dimora della meraviglia e dello stupore. Il lettore/paziente ha preso una strada diversa dal  romanzo inteso come fonte che stimola l’immaginazione e trasforma la realtà: ognuno ritorna nello spazio di essere soli al mondo. La relazione terapeutica si apre alla categoria della possibilità, scioglie il legame della necessità e, come in una scena di Fellini, fa dei personaggi  del circo una rappresentazione della totalità della vita dove ognuno trova dignità, ruolo, presenza e ascolto. La poiesis dell’atto creativo è uno stile che restituisce alla relazione flusso vitale; attiva all’interno di un modello terapeutico, validato e condiviso dalla comunità scientifica, un movimento circolare in cui, come in un quadro di Chagall, l’Angelo appare, rimanendo ai confini tra il visibile e l’invisibile.

In tal senso mi sembra che nella relazione terapeutica il gesto creativo, attraverso una interpretazione, un sogno, un abbraccio, una stretta di mano, permette l’albeggiare di una nuova  nascita del pensare. Un racconto scritto o un disegno portato, diventano  utensili artigianali  che  aprono alla progettualità verso l’esistenza dell’Altro: sconosciuto, straniero,diverso, come parte di se stessi e della propria storia, ma anche come presenza oggettiva. Nella relazione terapeutica, fatta di ascolto, silenzio, condivisione, pause, azione, trasformazione, l’atto creativo passeggia accanto allo stare con l’Altro; non diventa costrutto razionale né atto impulsivo irrazionale, una sorta di magia da circo, ma all’interno di una cornice epistemologia strutturata, traccia un solco che si impone alla presenza fenomenologica dell’esser-ci, dopo un lungo e paziente lavorio sulla materia psichica: affetti, emozioni, ricordi, corpo, immagini, pensieri.

Allora la storia raccontata acquista una nuova prospettiva, l’evento clinico diventa esperienza relazionale ed immaginale, e non più solo piano inclinato su cui albergano le storture della propria Anima. Lentamente si tenta di ritrovare l’universo perduto, l’equilibrio dinamico con la consapevolezza che ogni traguardo raggiunto rappresenta una tappa intermedia lungo la ricerca del processo individuativo, divenire autenticamente se stessi.

Sembra importante anche riflettere che in tale visione, l’atto creativo non diventa un oggetto persecutorio o uno stile nevrotico che si deve imporre a tutti i costi nel la prassi terapeutica, quasi che non se ne possa fare a meno. Il rischio  sarebbe quello poi di sacrificare sull’altare della creatività la relazione terapeutica, inseguendo una pseudo creatività che diventa imitazione e non iniziazione, del fare a tutti i costi, per destare scalpore o per apparire, nutrendo il narcisismo del terapeuta e le aree perverse del paziente.

La modalità creativa deve partire dal setting relazionale. Questo è il vero spartito da cui leggere la musica, il laboratorio alchemico dell’artigiano di turno, la tela su cui il pittore/terapeuta dipinge e ricerca i colori dell’Anima. Il temenos relazionale è un incontro di due e più autenticità (individuale e gruppale) che insieme cercano, ognuno  col proprio ruolo ed il proprio compito, di attuare itinerari mai sperimentati per tentare di uscire dalle zone paludose della Psiche del paziente, restituendogli senso e benessere al proprio essere al mondo.

In tale visione il rapporto tra creatività e relazione, acquista una pregnanza particolare, restituisce al fare creativo, l’idea del homo faber, di colui che si mette alchemicamente e simbolicamente all’opera e come un artigiano della Psiche, il terapeuta, guarda e considera gli eventi che si presentano attingendo al mondo dei sensi, della metafora, dei miti, delle immagini, delle storie familiari per collocare il presente in una visione più ampia, ricca di significati, ovvero una dimensione estetica ed etica. Il tema dell’estetica (aistesis, percezione dei sensi) è strettamente connesso al fare creativo e all’essere/fare relazione, in quanto girare lo sguardo verso la molteplicità dei luoghi della Psiche, vuole dire restituire dignità alla totalità di corpo/anima/spirito, dal momento che  l’idea di religiosità per troppo tempo è stata relegata a luoghi mistici ed è come se  tale l’area non potesse essere oggetto dell’universo psicoterapico, liberandosi dalle catene confessionali e da stereotipi e pregiudizi verso lo spirituale, ovvero l’archetipo dell’Animus.

L’estetica in tal senso attinge alla totalità dell’atto creativo sospendendo il giudizio fenomenologico e apprezzando la complessità dei volti del paziente, riuscendo a contenere e a trasformare ciò che crea disagio e come nelle psicosi una indicibile sofferenza. In tale senso la creatività cede il posto all’essere creativo partendo dalla spontaneità istintiva del terapeuta che si attua nel campo relazionale, cogliendo in trasparenza la visione simbolica della relazione che diventa lo spazio che può essere trasformata in luogo, luoghi d’Anima dove possono trovare accoglienza e cura le storie che vengono raccontate e narrate. Se il fare creativo attraversa e colpisce con la sua semplicità straordinaria la base poetica della mente, allora l’incontro diventa un atto rituale creativo, attesa in cui l’inaspettato e il possibile si affacciano sulla scena della vita del paziente e del terapeuta, aprendo il solco per  la nascita di un nuovo modo di pensare ed immaginare, uno stile in cui, il reale non diventa prigione dorata e il mondo del passato acquista un senso ed un valore diverso nel presente, e proiettato verso il futuro. E’ nell’incontro tra storie di vite, nel loro narrarsi, nella pazienza alchemica della cottura emozionale, nella ricerca scientifica dei sentieri tortuosi della mente umana, nello stagliare tutto ciò sullo sfondo del tempo storico attuale, che la sofferenza e la richiesta della domanda d’aiuto, si aprono  all’ospitalità del perturbante, peraltro presente in ogni lavoro terapeutico, come premessa per una ricerca trasformativa della totalità della propria personalità. Lo stile creativo, pertanto diventa anche pensiero che si apre nella mente  e nel cuore del terapeuta, quando si inoltra attraverso il dialogo dialettico con altri modelli terapeutici, accettando la diversità di altri punti di vista e la natura politeistica della Psiche. Tutto ciò per incamminarsi lungo la strada del dialogo scientifico e clinico, con giudizio critico ed ampio confronto di chiedere a se stessi e ai propri colleghi, quello che spesso chiediamo ai nostri pazienti: lasciarsi andare al libero accedere psichico, attraverso il cambiamento del proprio punto di vista, del proprio limite, superando i limiti ristretti del proprio orizzonte.

Avere in mente, da parte del terapeuta, che la costruzione di una dimensione teorica affonda sempre le radici nella propria equazione personale e che la sua soggettività è un elemento che partecipa alla danza rituale dell’incontro, vuole significare che questa capacità di partire da se stessi, dal proprio corpo, dalle sensazioni e dal mondo immaginale, è una possibilità rispecchiante per il paziente o per il gruppo/paziente di aprirsi alla strada della propria autenticità e del mondo dei propri vissuti emozionali e della sfera cognitiva.

In questa circolarità relazionale, l’inatteso, il possibile, l’ignoto, il corpo, gli affetti, i pensieri e le immagini autonomamente, dopo un lento, graduale e pesante lavorio psichico, occupano lo spazio relazionale e come in un gioco chiedono di essere accolti, filtrati e contenuti per poter essere collocati nel mandala della relazione psichica e simbolica.

Far risvegliare l’immaginazione nel terapeuta e nel paziente e /o gruppo, creando una sorta di alleanza terapeutica tra questi mondi, sopportando e trasformando gli aspetti terribili e distruttivi che toccano ogni lavoro terapeutico, penso che sia un compito estremamente arduo proprio perché rappresenta la base comune, la matrice o la prima materia, da cui poter partire per non rimanere illusi nella realtà materiale, dura, compatta, friabile e argillosa del paziente, con la consapevolezza che il contesto familiare e sociale rappresentano una risorsa o un ostacolo.

La distillazione delle emozione intense, con il lavoro di elaborazione e presa di coscienza, da parte del paziente per arrivare alla raffinatezza dei sentimenti, attraverso la specificità creativa insita in ogni modello ed approccio terapeutico, contribuisce alla formazione di idee diverse che incontrano l’alterità della presenza ed il vuoto dell’assenza in un gioco dialettico in cui gli opposti si muovono alla ricerca del tertiun oppositorum: un creativo pensare… pensare per immagini.

Tutto ciò comporta che il modello terapeutico venga continuamente rivisitato, partendo dalla costante esperienza clinica, creativamente guardato, esplorato, evidenziandone luci ed ombre sullo sfondo delle trasformazioni culturali e sociali che si impongono a tutte le molteplici forme del sapere. In tal senso, allora il modello terapeutico diventa non uno scrigno dorato, fuori dal tempo e dallo spazio a cui attingere in maniera acritica e fideistica, ma materia plastica, da poter essere visto anche sotto/sopra per scorgere, individuare le potenzialità ed i limiti spesso rimasti inespressi, privilegiando l’esperienza sul campo come tavolozza dei colori o argilla psichica per dare forma e contenuto alla molteplicità dei volti della Psiche del paziente nel percorso della cura.

In tale senso il dialogo ed il confronto all’interno della molteplicità di aspetti insiti in ogni modello terapeutico e il confronto tra diversi modelli terapeutici, diventa un’azione creativa in quanto apre la cornice epistemologica dalla dimensione della necessità a quello della possibilità, partendo dall’empiria clinica facendo del pensare creativo il ponte di collegamento simbolico tra la teoria e l’esperienza, tra il dire ed il fare, tra il relazionale e l’attività immaginativa.

In questo scambio costante e continuo tra i vari attori del pianeta psicoterapia,  trarre beneficio la psicoterapia medesima nella sua globalità, arricchendosi di contributi divergenti in una ottica di confronto e non di integrazione, mantenendo la specificità del proprio  modello terapeutico senza cadere in una sorta di eclettismo onnicomprensivo. Forse mai come oggi, sperimentare la possibilità del dialogo, secondo stili ed atteggiamenti creativi, tra diversi modelli terapeutici, diventa una necessità trasformativa, all’interno di processi  di validazione, che senza sacrificare la dimensione della cura, sull’altare dei protocolli, restituisce alle diverse forme, dei criteri di ipotesi di lavoro creativo su cui potersi confrontare, discutere, guardando la totalità multiforme della Psiche stessa.

‘Ero  a casa dei miei nonni morti, non potevo dormire, perchè c’era un uomo che mi  diceva che la casa era infestata da demoni. Questo uomo era in un vuoto nero, come in uno spazio cosmico, un nulla nero. Mi diceva  i nomi di questi quattro demoni ed uno si chiamava: Chi sei?

 Non li vedevo, non li sentivo, ma avevo solo la sensazione della presenza. In quietato da queste sensazioni, passo tutta la notte sveglio, camminando avanti ed indietro per la stanza, guardando l’orologio fino alle cinque del mattino, aspettando  che si facesse il tempo per andare a lavorare.’

Queste il sogno raccontato in terapia, di un  paziente  emozionalmente provato al risveglio angoscioso dovuto all’incontro con le immagini notturne, vissute con un certo disagio psichico. Senza entrare nel merito del processo interpretativo ed elaborativo, cibo nutriente e necessario per l’Anima del paziente alla fine del lavorio sul sogno, vorrei richiamare l’attenzione sulla presenza nella relazione terapeutica del sogno come utensile creativo che può contribuire ad arricchire la relazione e lo sviluppo della personalità del paziente di un valore, inatteso e prezioso. All’interno di un percosso terapeutico strutturato il sogno assume la valenza di un atto creativo che l’inconscio pone al paziente e alla relazione terapeutica, diventando questa impregnata di autentica spontaneità  creativa, una sorta di vaso alchemico che accoglie, l’immaginabile e il non pensato:

Da dove viene fuori questo sogno? Non l’avrei mai pensato, ne detto. Chissà cosa vuol dire e perché l’ho fatto? Spesso non so che cosa c’è dentro di me? Quando bevevo molto i demoni uscivano fuori, una sorta di vaso di pandora; anime che sono legate, prigioniere che non riescono a farsi vedere’

Questi pensieri, non sono solo quotidiani azioni del linguaggio, ma apertura del Logos che si apre alla domanda e all’incertezza di un evento notturno che viene commentato ed elaborato alla luce del giorno. La presenza, la conoscenza e l’attesa del terapeuta, con Bachelard, si sintonizza con la musica onirica in cui un tradurre in maniera razionale e mentale, comporta un tradire la molteplicità dei significati di un sogno, se non si tiene conto del pensiero del cuore. Il sogno diventa una pausa nella narrazione del pensiero razionale, diurno e porta il sognatore in un’altra dimensione, in un mondo nei mondi: i mondi del possibile e dello scorrere dell’acqua, intesa come aqua permanens, energia immaginativa vitale, paradossale, contraddittoria, ricca di possibilità trasformative per la coscienza ed il complesso dell’Io.

Il commentare il sogno, poterci girare intorno, privilegiando la circolarità interpretativa, diventa occasione di rispecchiamento per il paziente in cui la coppia terapeutica si mette non alla ricerca del tempo perduto di proustiana memoria, ma vive e si lascia accadere all’universo ritrovato in cui non è sufficiente guardare il cielo per poter dire di conoscere le stelle. Partiamo dall’universo ritrovato, quello delle possibilità esistenziali, in cui le emozioni possono ricongiungersi  con le immagini ed il linguaggio diventa portatore della potenza archetipica  della parola, piuttosto che essere questa una vuota metafora, perché allora, con Jung, gli dei diventano malattie.

Lo stare seduti metaforicamente sul sogno ha comportato nella relazione terapeutica, la capacità di entrambi gli attori di stare sulla scena onirica e, come nella sand play terapy, dare spazio ai singoli personaggi onirici, invitando la coscienza al dialogo dialettico con l’inconscio, col mondo fantasmatico, condizione necessaria per ogni processo trasformativo. Allora i personaggi del sogno, il racconto della trame psichiche, l’evidenza delle relazioni oniriche, l’espressione dei vissuti emozionali ed il recupero dei ricordi, attivano comportamenti, gesti compresi, che stimolano la fluidità della libido e riconnettono il paziente ed il terapeuta, ognuno con la propria specificità e capacità, all’universo ritrovato quello  dell’autenticità dell’istinto e non dell’impulso, per ricomporre attraverso un lento e graduale lavorio analitico l’asse Io/Sé, impregnato di fratture antiche ed attuali.

Il lavorio sul sogno allenta l’angoscia  dei pensieri regressivi, allarga il respiro della coscienza stretta nella morsa dei sintomi, restituisce un ritmo agli accadimenti esterni ed interni che raccontati, narrati, vissuti e condivisi  diventano  eventi riflessivi. In questo senso il sogno trasforma l’accaduto in esperienza psichica, recuperando l’universo perduto del mondo interno ed interiore, dandogli un valore prospettico, restando con profondità in superficie senza ricadere nei fondi di pozzi senza risalita. Il sogno e il suo lavorio, difficile e faticoso su di esso, restituisce all’immaginazione creativa il suo ruolo e la sua dignità autonoma e unificatrice, ponendosi come prima materia da cui partire per affrontare e trasformare il reale senza catapultarsi in voli pindarici ed evasioni fantastiche.

In questa cornice epistemologica onirica, si può collocare l’atto creativo calato nella quotidianità presente della relazione terapeutica, in cui come nel sogno, nel lavorio nei gruppi, nei giochi terapeutici e relazionali, individuali, familiari, prevale l’espressione gescheehen lassen, ovvero lasciare accadere, lasciare avvenire e lasciare divenire come modalità di apprendimento esperienziale ed immaginale che strutturano una nuova Weltahschaung nel paziente, e nel terapeuta, aprendolo alla categoria esistenziale della possibilità e del fare in relazione all’essere e non all’apparire.

Giocare con le parole e con le immagini, vuol dire aprirsi allo stupore, alla meraviglia, al sapore di nuove sensazioni e alle percezioni olfattive di diverse atmosfere, guardando al passato per non rimanere prigionieri come nel mito di Orfeo ed Euridice, ma partire dall’Origine, dall’inizio per progettarsi nel mondo. In questo senso, le parole di Jung sembrano significative: “Non mi rivolgo affatto ai fortunati in possesso della fede, ma a tutti quei numerosi cercatori per i quali la luce è spenta, il mistero scomparso, e Dio è morto”,(1) e  il rapporto stretto che si viene a creare tra fiducia, creatività e ricerca del numinoso, sembra una strada da percorrere per entrare nei sotterranei dell’Anima  e nella profondità dei pozzi dove risiede la sofferenza e il disagio psichico.

La psicoterapia allora diventa il vaso alchemico, occasione prima di tutto umana ed autentica relazione per mettersi alla ricerca del senso dell’esistenza che simbolicamente è stato perduto o smarrito, di quell’universo emozionale, relazionale e cognitivo che ha abdicato rifugiandosi nelle  caverne di antica memoria platonica, riempiendo di illusioni fantastiche ed onnipotenti i volti e le incertezze connesse al vivere umano.

L’atto creativo si riconnette all’incertezza del reale, restituisce alla parola la forza evocativa delle immagini e questa da voce, espressione, a ciò che per anni è rimasto afono  come in certi stati psicotici in cui la parola è ammantata dai veli di marmo del delirio e le immagini hanno preso la strada delle allucinazioni non presentandosi sulla scena relazione come oggetto transazionale, di condivisone, di comprensione nella relazione con se stessi e con l’altro. Le metafore sono spente, i simboli ridotti a segni, le immagini a fantasticherie solo psichiche, le emozioni attanagliate nella morsa dei sintomi compulsivi e la relazione invece solitudine sul teatro della coppia individuale e del mondo … il pensiero non si apre più sulla radura dell’essere, non più habitat che ospita l’insolito, ma diventa adattamento e maschera di un collettivo che privilegia l’omologazione e l’uniformità.

Se la psicoterapia, favorisce il rito dell’incontro, ciò corrisponde ad un bisogno, anzi ad una necessità della Psiche di stabilità, di percorrere per anni strade note e ripetitive, e di scandire un tempo come regolatore del limite e del recinto.

In questo contenitore, la metafora della trasformazione, diventa processo individuativo, affonda le sue mani nella materia della relazione e nella psiche delle immagini, ritrovando la sintonia e lo scambio circolare tra questi poli: materia/psiche e relazione/immagine e dalla loro lenta cottura alchemica è possibile, Deo concedente, trasformare il piombo in oro,  la nigredo in  rubedo, la sofferenza in senso simbolico e prospettico.

Entrare nello spazio creativo della psicoterapia, presuppone un atteggiamento di ascolto e di accoglienza di ciò che  appare caotico e confuso, con la consapevolezza che l’arte terapeutica richiede la totalità della personalita del terapeuta, ars requerit hominem, facendo ricorso alla potenza evocativa dell’immaginazione propria e quella che nasce all’interno del setting terapeutico, dal momento che l’immagine ci fa essere presente all’evento permettendoci, come nel gioco della sabbia o nell’immaginazione attività, di interagire emozionalmente con l’evento.

A tal proposito Jung affermava che tutto ciò occorreva immaginarlo con la vera immaginazione, mettendo in guardia da atteggiamenti illusori e di evasione fantastica: “’Immaginatio è dunque un estratto concentrato di forze vive, tanto corporee quanto psichiche”.(2). Questa visione creativa permette a mio avviso di poter entrare nel giardino della Psiche del paziente e della relazione terapeutica, partendo dal fenomenico esistenziale e dalla complessità della realtà  con l’umiltà e la pazienza curiosa del ricercatore ed esploratore dei giardini della Psiche individuale e collettiva:

“Oltrepassiamo il cancello del giardino.

Se vi aspettavate di trovare un giardino lindo e ben tento, pieno di fiori, sarete molto delusi. Che confusione, che disordine, che inestricabile viluppo! Erbacce ovunque, i sentieri a mala  appena discernibili sotto la verzura lussureggiante! E’ quasi impossibile distinguere il piano secondo il quale il giardino è stato concepito. E se ci domandiamo quale dovrebbe essere il nostro compito in questo giardino, uno di noi potrebbe dire che un lavoro utile potrebbe essere fatto con le cesoie da potatore; un altro potrebbe suggerirci  di sbarazzare le molte piante e radici marce o appassite. Il purista o il patriota europei vorrebbero liberarsi di tutte le piante importate dall’Oriente o dal Meridione, che considerano aliene rispetto al giardino e incapaci di reggere il clima europeo. A un altro ancora piacerebbe prendere su un rastrello, liberare i sentieri e stabilire così lo schema del giardino.

A me sembra che, per quanto giustificati siano, questi progetti non centrino il cuore del problema. Sediamoci in quiete nella radura del nostro giardino, coperta di denti di leone, crescione, di tutti i nostri familiari fiori ed erbe di primavera e ascoltiamo quello che i comuni fiori selvatici e i cespugli scarmigliati hanno da dirci. Forse ci diranno del compito che deve essere trovato nel giardino.

Dobbiamo soltanto stare attenti; presto cominceranno a parlare, schiudendo sommessamente i loro segreti.”(3)

Vorrei concludere questo scritto con una lettera di Jung, che a mio avviso restituisce il valore simbolico alla vita senza negare la sofferenza e il viaggio interiore, ma ponendo in questo senso la psicoterapia in rapporto alla funzione teleologica spostando  l’asse della comprensione del disagio dal  perché (la causa) invece al che cosa serve (lo scopo), ponendosi in relazione alla vita stessa e restituendo il paziente all’unità e alla totalità della propria esistenza, individuale e sociale, reale ed immaginale, materiale e spirituale.

“Mia cara amica,

lei si chiede, e mi chiede, come possa la vita continuare dopo un evento così doloroso come solo può esserlo il distacco dall’amato, dalla persona cioè alla quale abbiamo unito il nostro desiderio e con la quale abbiamo affidato tutto noi stessi nelle mani del futuro. E’ questo è un interrogativo al quale, debbo confessarle, non so dare risposte.

Per quanto vittoriosa sia la fede, per quanta temperata, pure essa non sovrasta l’enigma della morte. Quando la morte si manifesta sul nostro cammino, quando ci sottrae il nostro bene, è violenza insostenibile dalla quale sempre siamo sconfitti. E per quanto profonda possa essere, come lei gentilmente mi attribuisce, la conoscenza dell’animo umano, ebbene essa ci conduce solo là dove non si può che ammettere, per quanto a malincuore, la propria ignoranza.

Ugualmente lei mi impone di osare, e giustamente. Ebbene, per cominciare, debbo avvisarla di non prestare orecchio alle facili consolazioni che certamente riceve e riceverà e che sempre più d’altra parte si vanno facendo folla intorno a noi, complice la stessa psicologia di cui vorremmo essere fedeli e umili testimoni. Le consolazioni consolano anzitutto i consolatori. Consentono a essi di coltivare l’illusione di essere immuni da ciò che agli altri è toccato in sorte, e ancor più d’essere saggi, prudenti e avveduti. Così sentendosi al riparo e al sicuro, essi conservano la loro buona reputazione al prezzo di qualche buona parola. Ma, può esserne certa, se fossero onesti con se stessi, come dicono di esserlo, con gli altri, dovrebbero ammettere sinceramente che le consolazioni che offrono, consapevoli o meno che ne siano, nascondono null’altro che commiserazione per sé e risentimento per la vita. Ecco dunque un primo consiglio; né commiserazione per sé né risentimento per la vita.

Benché oscuro sia lo sfondo sul quale la morte si manifesta, altrettanto oscuro quanto quello della vecchiaia e della malattia, per non dire di quello del peccato e della stoltezza, ebbene è lo stesso sfondo sul quale si staglia il sereno splendore della vita. Per la nostra salute mentale sarebbe perciò un bene non pensare che la morte non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e sconosciuto processo vitale: sia nei giorni dolorosi nei quali precipitiamo per la perdita di chi ci è caro sia nei giorni tristi nei quali  siamo sorpresi dal pensiero della nostra stessa morte. La nostra morte è un’attesa o, se vuole, una promessa che non è mai compiuta. Per questo essa non ci impone di vuotare la nostra vita ma piuttosto di procedere alla sua pienezza. Mentre la morte di ci toglie ciò che ci è più caro, al tempo stesso ci restituisce a ciò che ci è più prezioso. Non è il mistero della morte che siamo chiamati a sciogliere: piuttosto è quello della vita.

La vita è un imperativo assoluto al quale nessuno deve sottrarsi. Per quanto ostico ci paia il compito, per quanto insostenibile, per quanto ostile, abbandonarci a noi stessi, abbandonare noi stessi non è contemplato tra le molte possibilità. E’ la vita che dobbiamo piuttosto, direi addirittura, arrenderci alla vita e al suo costante fluire. A questo scorrere non possiamo imporre alcun argine, né potremmo tentare di deviarlo o di mutarne la traiettoria. Ciò sarebbe assai sciocco e per molti versi pericoloso. Se vogliamo inimicarci la vita, se vogliamo davvero averla contro sappiamo come fare: rinunciamo a viverla. Vi sono numerosi modi per ottenere questo, l’ultimo dei quali, il più stupido e spietato, è troncarla con le nostre stesse mani. Questo è il supremo peccato. Se ci teniamo al di sopra di questo baratro potremo sempre, in ogni caso, imporre alla vita un corso predeterminato, forzarla o sospenderla, in una parola dirigerla. Abbiamo infiniti compiti che possiamo imporci e infinite mete verso le quali orientarci. Tutto ciò fa pur sempre parte della nostra vita, ma è ciò che la nostra vita ci chiede? La vita che abbiamo scelto per noi potrebbe infatti rivelarsi ben diversa da quella che avrebbe scelto noi.

Il problema è allora questo: giunto alla fine dalla mia vita che cosa mi ritrova tra le mani? Se trovo solo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato non sarà gran cosa. Ma potremmo trovare ben di più, ben di peggio. Ogni vita non vissuta accumula rancore verso di noi, dentro di noi: moltiplica le presenze ostili. Così diventiamo spietati con noi stessi e con gli altri. Intorno a noi non vediamo che lotta, cediamo e soccombiamo alle perfide lusinghe dell’invidia. Si dice bene che l’invidia accechi il nostro sguardo è saturo delle vite degli altri, noi scompariamo dal nostro orizzonte. La vita che è stata perduta, all’ultimo, mi si rivolterà contro.

Perciò, l’ultima cosa che vorrei dirle, mia cara amica, è che la vita non può essere, in alcun modo, pura rassegnazione e malinconica contemplazione del passato. E’ nostro compito cercare quel significato che ci permette ogni volta di continuare a vivere o, se preferisce, di rispondere, a ogni passo, il nostro cammino. Tutti siamo chiamati a portare a compimento la nostra vita meglio che possiamo.”(4).

Queste parole esprimono uno dei compiti della funzione della psicoterapia  che è quella di restituire il paziente alla totalità della propria esistenza, con la consapevolezza che la pienezza della vita, con tutte le  insidie e i sentieri impervi, diventa la meta del processo individuativo, con un atteggiamento religioso che è quello di impegnarsi con  amore e conoscenza verso la ricerca della Psiche.

Note bibliografiche

1)   Jung,C.G., Psicologia e religione, Opere, Boringhieri, Torino, 1979

2)   Jung,C.G., Psicologia e alchimia, Opere, Boringhieri, Torino, 1988

3)   Bernoulli,R. Spiritual Development as Reflected in AlChemy and related Disciplines, in Papers from Eranos Yearbooks

4)   Jung,C.G., Jung parla. Interviste ed incontri, Adelphi, Milano, 1999

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